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Museo della Latteria di Lozzo di Cadore: non compare nell’universo dei musei veneti! Perduto?

16 Luglio 2010 Museo della Latteria, Turismo e dintorni attività-culturali, promozione-turistica

Vi sono eventi nel mondo fisico talmente veloci che, per misurarli, si deve ricorrere ai femtosecondi (un milionesimo di miliardesimo di secondo). Vi assicuro che a niente varrà lo sforzo di immaginarsi questa grandezza; sfuggirà sempre alla nostra percezione. Vi sono altri eventi invece, come l’orogenesi delle Dolomiti,  che si misurano con scale di milioni di anni. Vi sono poi altri eventi, come per esempio i riallestimenti museali, in particolare quelli finalizzati all’inserimento del risultato ottenuto in rutilanti “reti museali”,  ai quali la misura del tempo, variabile in questo ambito senza alcun significato, non si applica. Non si può applicare.

Così, volendo rimanere legati al pollaio lozzese, il Museo della Latteria (conosciuto anche come Museo della Lotteria nonché Museo della Lola) non compare ancora nell’universo dei musei veneti proposto sul sito della Regione Veneto,  (qui la pagina relativa alla provincia di Belluno). C’è il Museo dell’Occhiale, quello degli Zattieri del Piave, quello della Flora Fauna e Mineralogia di Auronzo, ma non c’è ancora quello della Lola.

Propongo alcune ipotesi. Non oso pensare che la colpa sia dei professionisti (in fondo è soprattutto dalla greppia della Regione che traggono sostentamento) i quali avranno tempestivamente inoltrato le pratiche del caso alla Regione Veneto. La colpa sarà del solito oscuro funzionario-burocrate che deve ancora “prendere in mano” la faccenda. O forse sarà di Zaia che ha iniziato a tagliare costi a destra e manca: che sia andato a colpire anche qualche manager che si interessava della promozione della cultura? O forse, più semplicemente, la pratica è in attesa del collaudo finale struttural-culturale? Una cosa è certa: il cesso da 28.000 € funziona. E tutto ciò che raccoglie lo dispensa poi generosamente, dopo un lungo tragitto, alle acque lagunari.

Beh, se io fossi nei panni del sindaco un colpo di telefono a Bond o a Toscani lo farei. Che dall’inaugurazione ad oggi non si sia ancora ottenuto l’inserimento del Museo della Lola nell’universo dei musei veneti è un argomento inaccettabile. Quanti turisti che si abbeverano al sito regionale avremmo potuto veder sfilare nel riallestito museo? Pensiamo a quanti caffè i nostri esercizi avrebbero potuto preparare. Come diceva un vecchio e saggio maestro elementare di radici ladine, “par promuove e senpre tenpo“, evidentemente anche quando si tratta di promozione turistica e culturale nel III° millennio.

Quindi, oltre alla mancanza del pieghevole, dobbiamo subire anche l’onta di non avere il benché minimo cenno neanche sul sitone regionale. Che dire: non ci sono più i volontari di una volta.

il giallo pubblico a Lozzo di Cadore: la desertificazione ai piedi delle Dolomiti

15 Luglio 2010 Decoro urbano decoro-aree-turistiche, minuto-mantenimento, verde-pubblico

Il cosiddetto “verde pubblico” può, con opportuni accorgimenti, diventare “giallo pubblico”. La desertificazione, sia chiaro, è uno dei più seri problemi dell’età moderna e l’espansione inarrestabile del Sahara è lì a dimostrarcelo. Tuttavia, qui ai piedi delle Dolomiti, pensavamo di doverci occupare più del dissesto idrogeologico che degli effetti della desertificazione.

No, non è per un abuso dell’uso che è nato il problema. La frequentazione dei “campetti” infatti, se per la parte sportiva (il campetto vero e proprio) vede una presenza discontinua ma costante di giovani virgulti, per quella a carattere più naturalistico-rilassante con funzioni di “parco” e verde pubblico la fruizione è, per così dire, omeopatica (per la verità nel tardo pomeriggio la presenza umana ha un sussulto …).

Le cause.
Prima fra tutte l’utilizzo del decespugliatore a filo per il taglio dell’erba. In quali altri casi il nome di un utensile può dirsi così onesto? De-cespugliatore: più onesto di così! Se poi l’operatore, durante la fase di taglio, inclina leggermente l’asse verso terra il gioco è fatto: si ottiene il dissodamento del terreno. Non oso poi, per carità di patria, entrare nel tema del “tempo richiesto” per il taglio dell’area con questo aggeggio. Sembra tuttavia che la presenza di “pietre” (in un’area pubblica dedicata al gioco dei bambini??) sia l’elemento che ne ha principalmente determinato l’uso.

Il secondo elemento è la scarsità delle precipitazioni. Di solito ci si aspetta almeno un taiemporalino quotidiano con “rosada” al seguito che invece, se non proprio occasionalmente, non ha fatto la sua comparsa. Nei dintorni, acquazzoni di rara intensità hanno rovesciato le cataratte del cielo (producendo anche seri danni), ma Lozzo per ora (e solo per ora) è stato risparmiato.

Il terzo elemento è la mancanza di un adeguato innaffiamento. Non si parla di provvedere ad un innaffiamento quotidiano, ma un aiutino, stante anche l’abbondanza d’acqua nella rete idrica che per ora ci è concessa dalla divina provvidenza, sarebbe gradito (in particolare dall’erba).

Ci sarebbe anche l’influenza generale di “El Niño”, che comunque si riflette nella scarsità delle precipitazioni, elemento in parte già considerato.

Soluzioni
Effettuare il taglio dell’erba con un rasa-erba o tosa-erba (anche questi “utensili” hanno un nome che aiuta ad immaginarsi le modalità d’utilizzo); non avendo la necessità di giocare a golf, si può preferire un’altezza di taglio (su queste macchine facilmente regolabile) che aiuti a trattenere quel po’ di umidità da condensazione, benefica per l’erba.

Provvedere all’innaffiamento (saltuario, alla bisogna):

  • ricorrendo alla forza lavoro a disposizione dell’amministrazione;
  • chiamando a raccolta i pensionati più sensibili all’utilità del verde pubblico ai quali affidare questo compito;
  • chiedendo a Mario, che già innaffia manualmente il campo sportivo se, con piccola integrazione compensativa da erogarsi secondo modalità tutte da inventarsi, può estendere il servizio anche all’area dei campetti (l’idrante c’è);
  • facendo intervenire a turno i consiglieri della nostra amministrazione;
  • chiedendo al sindaco di Calalzo se, dopo aver fatto il giro con la spazzatrice per le vie calaltine, può darci una mano qui a Lozzo a bagnare il “giardino di casa” (solo dopo aver ricevuto il diniego da parte dei consiglieri lozzesi);

l’innaffiamento manuale del campo sportivo di Lozzo di Cadore

14 Luglio 2010 Informa-Lozzo gestione-sport

Questo articolo è nato dalla mia curiosità di sapere se l’innaffiamento (o irrigazione) del campo sportivo di Lozzo fosse davvero manuale, come mi sembrava di poter arguire dando un’occhiata al lungo serpentone del tubo-manichetta (tipo “dei pompieri”) che vedevo appunto serpeggiare bianco sul fondo verde del campo (prima foto).

Mi sono allora recato al campo per valutare più da vicino la situazione. E lì ho visto subito la pompa che, ai miei occhi non più espertissimi nel valutare meccanismi vari, ma neanche da mettere in pensione, è apparsa subito “rotta”. Tale pompa, se funzionasse, permetterebbe l’innaffiamento automatico del campo in tre passate; il posizionamento per ogni passata deve tuttavia essere fatto a mano.

Si svolge il tubo fino a fondo campo, si apre la saracinesca alimentando l’innaffiamento; il flusso dell’acqua agisce su un semplice meccanismo che permette il lento e progressivo riavvolgimento del tubo. Quando l’innaffiatore giunge nei pressi della pompa esso va ad esercitare una pressione su una levetta che chiude l’alimentazine idrica e… il gioco è fatto: una delle tre fette del campo è innaffiata senza bisogno dell’intervento umano. Che invece serve per spostare la pompa sul secondo settore e riavviare l’alimentazione in automatico.

Ma la pompa è rotta da almeno un mese e mezzo. Così mi ha raccontato Mario che lì ho trovato e con il quale ho scambiato due parole. Mario ha il compito di provvedere alla manutenzione dell’impianto sportivo ed all’innaffiamento del prato. Egli è però ora costretto ad innaffiare manualmente il campo, nel senso che deve dapprima svolgere la manichetta (da 45 mm) e poi farsi aprire da qualcuno l’acqua (normalmente un figlio) visto che la lancia con cui provvede all’innaffiamento, una volta messa in pressione la manichetta, diventerebbe un oggetto impazzito se lasciata a se stessa (come nei cartoni animati).

Poi, come un bravo pompiere, passa un’oretta ad innaffiare metà campo facendo body-building (tenere una lancia alimentata con 10 atmosfere non è come fare uncinetto). Alla fine dell’ora il figlio chiude l’acqua e Mario riprende fiato, sgancia i manicotti e svuota i vari pezzi di manichetta per poterla spostare sull’altra metà del campo (pieni d’acqua non sono facilmente spostabili per il peso della colonna liquida). Poi rifà la stessa cosa per l’altra metà del campo. Il tutto dopo le 20 della sera e, fra una cosa e l’altra, giungono le 23.

La “fortuna” ha voluto che Mario abiti a quattro passi dal campo e che, come abbiamo visto, per aprire e chiudere l’acqua e spostare la manichetta possa contare sul proprio figlio. Ma se la manutenzione fosse affidata ad un’altra persona?

Da quel che ho capito il problema dell’innaffiamento è soltanto uno dei problemi che Mario affronta costantemente nel fare manutenzione all’impianto sportivo. Non voglio qui entrare nel dettaglio di una situazione che non conosco (ma che mi piacerebbe approfondire). Credo però che l’amministrazione comunale dovrebbe prendere atto in modo più deciso (e preciso) dei problemi che l’impianto pone, al di là del fatto che sia dato in concessione ad una società che dovrebbe provvedere alla sua gestione.

Ciù stop is megl che uan (ossia la leggenda del bivio dei due stop)

13 Luglio 2010 Criticarium, Viabilità minuto-mantenimento

La marea nera del Golfo del Messico e l’uscita dell’Italia dal G20 sono solo due dei grandi problemi che affliggono l’umanità e che, per questo, tendono ad oscurare notizie locali come la seguente. Ieri sul blog di Per la Gente di Lozzo è stato pubblicato un articolo che dà spazio alle considerazioni di un cittadino sullo spostamento dello stop (in quanto segnaletica orizzontale) presso il bivio tra via Loreto e via Col Vidal. In virtù di questo evento e delle piccole vicende che immagino si possano svolgere nel giro dei prossimi due o tre anni, propongo di battezzare il luogo con un nuovo toponimo “al bivio dei doi stop“.

Sembra che il tutto si trascini da più di 5 anni, da quando cioè il sindaco ed il vice, presenti sul posto, furono investiti del problema in occasione di un avvenuto incidente che, per fortuna, non provocò problemi alle persone. Si trattava di spostare di qualche metro in avanti la linea dello stop in modo che il guidatore avesse una visuale molto più ampia, non intralciata dai cassonetti dei rifiuti. E’ certo che per farlo ci sono voluti 5 anni ed è altrettanto certo che, se non vi fossero state una somma di circostanze favorevoli, anche quest’anno lo stop non avrebbe fatto un passo avanti.

Ma il problema, ora che la fatica è stata portata a termine, si sposta dal nuovo stop a  quello vecchio, che è rimasto a testimonianza della rara perfidia dell’amministrazione nei confronti del povero automobilista.

Il cittadino di Lozzo avanza, nell’articolo citato, una segreta speranza: “Ora spero tanto che per cancellare quello vecchio non ci vogliano altri 5 anni“.

Non occorre avere grande acume per sapere che la risposta delle maestranze non può che essere stata “al se scancela da solo“, in virtù della nota funzione autocancellante propria di ogni segnaletica. Se questa è la risposta delle maestranze, figuriamoci quella degli amministratori (lascio stare per ora la casta dei tecnici). Caro cittadino, hai mai pensato che “ciù stop is megl che uan“? E poi, le scarse risorse in capo alla gestione del personale vanno allocate in modo più conveniente: che fastidio dà, in fondo, un doppio stop?

Questo è quello che succederà: lo stop vecchio verrà lasciato languire finché il tempo non ne farà svanire quasi del tutto la sagoma. Poi un giorno, tra qualche anno, uno zelante operaio neoassunto in “mobilità stagionale“, pronto a dare il massimo di sé, verrà mandato a rinfrescare la segnaletica orizzontale. Fedele al noto principio che “ciù stop is megl che uan”, giustificato dalla fresca nomina e relativa inesperienza, darà una rinfrescata generale ad ambedue gli stop. E fu così che nacque e si perpetuò la leggenda del “bivio dei doi stop“.

P.S. In caso di incedenti, per il codice della strada vale di più la segnaletica verticale (stop rosso) o quella orizzontale?

breve riflessione filosofica sull’utilizzo dei pieghevoli per la promozione turistica

12 Luglio 2010 Turismo e dintorni promozione-turistica, trentino-alto-adige

Me lo avevano già detto: “ci sono rimasti molti pieghevoli del Rif. Ciareido e dell’Amalio Da Prà, per quest’anno non serve stamparne”. Me l’hanno ripetuto da poco, altra persona però, quasi con orgoglio. Ho riunito i tre saggi, che rispondono ai nomi di Danilo, De e Martin, che così si sono pronunciati:

«se i pieghevoli, una volta stampati, li tenete a prendere polvere nella soffitta del comune (esempio) o nelle segrete del Palazzo Mubarak, è certo che ve li ritroverete fra i piedi ogni anno. In Trentino Alto Adige i pieghevoli vengono stampati per essere consumati, qui a Lozzo per essere conservati. Questa non è l’unica differenza che contraddistingue loro da noi».

le Lozzarole, ossia le Marmarole di Lozzo di Cadore (perché Dio è stato così buono)

11 Luglio 2010 Pian dei Buoi dolomiti, fare-turismo, sviluppo-pian-dei-buoi

Nel settembre 2007, alla presentazione del libro “Sentieri nelle Dolomiti del Centro Cadore“, scritto insieme a Roberto Tabacchi, l’istrionico Bepi Casagrande mi pose questa domanda: “qual è secondo te il più bel sentiero in queste Dolomiti?”. Risposi senza alcun dubbio “la strada Sanmarchi“. Il percorso così nominato, in onore di “Toni Sanmarchi” ideatore del medesimo e conoscitore attentissimo delle Marmarole, percorre il cuore di questa catena dolomitica dal biv. Tiziano fino all’innesto nell’Alta Val di S. Vito, toccando i biv. Musatti e Voltolina (quest’ultimo con una breve deviazione dal percorso).

A pag. 11 del libro “Panorami da Pian dei Buoi” scrivevo invece: “Della vasta regione dolomitica le Marmarole costituiscono, da un punto di vista geomorfologico, l’unica vera catena montuosa, intesa come successione pressoché continua di monti costituenti una unità geografica ben definita. La si può immaginare, in prospettiva, come una muraglia che, partendo da Forc. Grande alla base della C. Bel Pra, corre ininterrotta per 13 km, da O ad E, per terminare proprio qui sul Ciarìdo, digradando lungo il Coston de Pomadóna in Val de Poórse.”

La cosa singolare, siamo solo in 3 o 4 al mondo a saperlo, ed io solo lo sto rendendo pubblico, è che di tutta la catena delle Marmarole che si snoda per la bellezza di 13 km, quelle che appartengono a Lozzo coincidono con ciò che vediamo una volta giunti all’altopiano di Pian dei Buoi. Proprio e solo con ciò che vediamo, nel senso che le Marmarole di Lozzo, le Lozzarole, sono tutte lì.

Se ci immaginiamo la catena da esse costituita come un parallelepipedo (di 13 km di lato), le Lozzarole coincidono con la facciata terminale (e solo con essa) di questo parallelepipedo. In altre parole, dei 13 km di Marmarole, sul suolo lozzese ne straripano solo, limitandoci alle crode vere e proprie, 300 m (sì e no). Un ultimo esempio: se le Marmarole fossero un’automobile, le Lozzarole sarebbero rappresentate da poco più della targa. Il confine amministrativo con l’ingordo comune di Auronzo (poco più del doppio degli abitanti di Lozzo, 7 volte il suo territorio) corre infatti sulla cresta del Ciarìdo.

Ma nel corso della storia Dio, guardando ai miserabili lozzesi, concesse loro non tanto la facciata terminale delle Marmarole, che non interessavano a nessuno dei nostri avi, ma il fertile altopiano sul quale queste vanno a morire, l’altopiano di Pian dei Buoi, la Monte de Loze. E disse loro: “avete un territorio miserrimo oltreché minuscolo, non potevo soffocare oltremodo la vostra già derelitta esistenza regalandovi altri sassi: ecco dunque a voi Sovergna, che sia patrimonio di tutti voi, di tutti i Regolieri che compongono la vostra comunità”.

La singolarità, tornando ai nostri giorni, è che le Lozzarole, questa facciata di crode, quel “niente” di Marmarole, si è tramutato nel diadema che valorizza inconfondibilmente l’altopiano di Pian dei Buoi. Un’altra singolarità è che il SIC-ZPS “Marmarole, Antelao, Sorapiss”, che comprende tutte le Marmarole includendovi il Rif. Ciareido, lambisce appena l’erba dell’altopiano. Così che esso può essere pensato, anche se non lo è, come una delle principali “porte” del Sito di Importanza Comunitaria.

Se poi si pensa che la perimetratura del SIC citato coincide con i limiti del leggendario Parco del Cadore, ecco che l’altopiano può essere venduto come “porta del Parco del Cadore“. Ribadisco il concetto: sappiamo che non è “porta” di un bel niente (in virtù della saggia conformazione che Dio ha voluto dare alle Marmarole in tutta la loro lunghezza), ma se trentini e altoatesini riescono a vendere senza vergogna ai turisti quelle prurigginose torture che sono i bagni di fieno, anche noi qui potremmo lanciarci in questo tipo di valorizzazione, o valo-mistificazione a fin di bene (loro l’avrebbero già fatto). Facciamolo.

Chi?

Le Lozzarole, ossia la porzione di Marmarole che Dio ha concesso ai lozzesi. Sono tutte qui, e solo ciò che vedete, il confine con Auronzo corre in cresta.

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